Un poeta dell'anima

Bruno Fasani, 2010

A Giovanni Paolo II, 1991 - Tecnica mista su tela - cm 120x180 - Collezione Vaticano

“La bellezza salverà il mondo” proclamava il grande Dostoevskij. Non era un’affermazione solo di tipo estetico. L’arte, nella sua potenza espressiva è emozione e riflesso del mistero, ma è anche memoria dei popoli. È l’arte che interpreta la storia, che la rappresenta, che ne intercetta le passioni e gli umori e la riconsegna alla gente come una coscienza da tenere sempre desta. L’iconografia della grande Madre Russia è stata il punto di riferimento cui andare con la memoria nelle notti disperate dell’esilio di tanti perseguitati di quel Paese. In questo senso l’arte è la forma più alta della politica e la più grande eredità morale di una nazione, con tutta la forza evocativa che essa possiede.

Che ne sarebbe della nostra identità nazionale senza Giotto, Michelangelo, Leonardo, Caravaggio… Segantini, Casorati, Morandi, De Pisis, solo per fare alcuni nomi? E che ne sarebbe di una società che non avesse più l’opportunità di librarsi sopra l’aridità del quotidiano, per respirare il sogno entro il quale la bellezza ci introduce?

Si dice che ogni espressione artistica sia la liberazione della fantasia, nel senso di uno svelamento della situazione storica contingente, ma anche un grande atto di immaginazione, in quanto proiezione e valorizzazione dei frammenti di bontà, di amore e di bellezza, sparsi nella storia.

In questo senso, l’arte assume una precisa valenza teologica. Essa è mediazione di quella Bellezza creatrice che rivela alle creature la bellezza delle cose. L’artista, come il poeta, è un consapevole o inconsapevole contemplativo, che sa vedere dove l’occhio della gente comune non sa vedere, capace di restituire al mondo un messaggio dato a pochi per la conoscenza e il bene di molti. Esattamente come fa lo scienziato, il pittore, lo scultore, il musicista e chiunque sia dotato di un carisma particolare, cioè di un dono speciale che, come racconta l’etimologia della parola charis, è pura gratuità, cioè amore. L’artista è peraltro anche un grande pedagogo, cioè un maestro capace di risvegliare la verità della bellezza dentro gli spazi grezzi di una società dai contorni spesso tormentati nella Babele del vissuto quotidiano. Senza l’arte noi saremmo condannati alla disperazione e nella disperazione spesso è solo l’arte a consentire di volare dentro l’infinito della speranza, come promessa di un domani nuovo e possibile. I disegni dei bambini e degli internati nei campi di concentramento sono lì a testimoniare che solo la creazione artistica fu in grado di restituire frammenti di trascendenza dentro la notte in cui l’ideologia aveva portato il mondo.

Noi dobbiamo essere grati a tutti gli artisti. A prescindere dalla notorietà, dalla quotazione economica del mercato che li gestisce, dalla risonanza madiatica. Questi sono accorgimenti umani che non toccano l’essenza del loro lavoro, che è sempre il sintomo di una fioritura dell’animo, del sentimento, del misterioso che si impone sui dati freddi della tecnologia e del pragmatismo.

Ho conosciuto Pippo Borrello alcuni anni fa. Prima ancora della sua persona avevo conosciuto le sue opere. Da profano, quale sono, mi evocavano un’assonanza con il liberty in chiave moderna. Quelle linee mai dome, mai imbrigliate in qualche angolo d’arresto, sembravano una sorta di strada, piena di colore e di movimento, pronta ad insinuarsi per esplorare la prateria della vita e della creazione. Eppure, a dispetto di un tratto moderno e personalissimo che sfugge ad ogni catalogazione, si trattava di un’arte tutt’altro che astratta. Il figurativo in Pippo Borrello è sempre sullo sfondo, sia che descriva un angolo di mare, sia che interpreti una scena sacra. Ma è uno sfondo plastico che bussa timidamente alla porta, interpretato dalla vivacità di un pennello dai mille colori che non si pone confini, come la tavolozza di un bimbo che rifiuta i canoni dell’accademia, perché libero interiormente. Classicità e modernità si impongono in Borrello come il connubio tra un sentire antico dell’animo e la modernità del tratto, come una fuga in avanti verso spazi di libertà.

Ho parlato del bimbo, ed è proprio al bimbo, detto con assoluto rispetto, che l’uomo Borrello rimanda nella sua trasparente e disarmante umanità. Quasi che la sua arte andasse ad attingere in un animo che non ha mai cessato di credere nella bellezza, di sperare, di credere nei valori più grandi, nel valore dell’Assoluto, come in quello dell’amicizia, nella nostalgia per la terra e nel segreto dei sogni. Un uomo semplice o, se volete, con l’eleganza d’altri tempi, ma pur sempre capace di essere eternamente giovane, con la freschezza dell’arte, che sgorga in lui come una sorgente limpida dai colori argentini.